Le case dell’architetto
E poi ci sono le case dell’architetto.
Le mie.
Quelle in cui ho vissuto.
In totale 6 appartamenti, 4 quartieri. Tagli differenti, piani differenti, zone varie. In uno c’era il terrazzo con vista cupola, in altri un balcone fiorito. Uno aveva il soggiorno all’americana con un’ampia finestra con vista sul verde, uno era un openspace da architetto, uno aveva il parco tennis.
In tutti gli spazi in cui ho abitato ho sempre portato con me una tazzina da caffè. La Tazzina. Sorta di coperta di Linus. Imprescindibile traslocare senza di lei.
Proviene dalla sala da pranzo dei nonni, quella con il grande specchio con il bordo dorato, proprio sul buffet. Si chiamava così, sala da pranzo anche se c’era anche il divano verde, due poltrone con le zampe in metallo e la vetrina. La tazzina era lì insieme al servizio buono in porcellana da usare rigorosamente solo la domenica, insieme alle lasagne, l’arrosto e il vassoio di pastarelle comprate per l’occasione.
Tutto in quella casa a Garbatella sa di antico. La carta da parati, il mobile con il telefono (e il lucchetto al telefono) al centro del lungo corridoio. Le graniglie a scacchi bianchi e neri per terra.
Tanto diversa dalla casa in cui vivevo con i miei alla Magliana (sì quella del canaro e sì vengo dalla periferia). La mia prima casa. Il gres lucido blu carta da zucchero a terra formato 20×20, mobili dal design scandinavo, un simil Arco di Castiglioni che illumina il tavolo di cristallo con le sedie Plia attorno. Noi lo chiamiamo soggiorno.
La sala da pranzo è quella dei nonni o quella della zia Ada che prepara il pollo in crosta.
Da noi non ci sono vetrine, il servizio buono è impilato nel mobile basso con i profili in acciaio. Non abbiamo tazzine decorate.
Tutto parla un’altra lingua. Più contemporanea. Nessun bagliore di specchi. Nessun accenno al contemporaneo, tranne per la TV. Dai nonni cubetti di cioccolata fondente sul pane casareccio da noi cucchiaiate di Nutella per capirsi.
Ci ho vissuto in quella casa dei nonni a Garbatella, per un po’, per motivi logistici. La tazzina me la ricordo bene nella sala da pranzo.
Avrei voluto portare quella tazzina nella casa dei miei. All’epoca non bevevo caffè e mai scompagnare il servizio buono.
Perché una casa, come diceva Zaha Hadid, non è un racconto di spazi, ma di comportamenti.
Ho messo su la moka (e sì sono caffeinomane) e tengo la Tazzina tra le mani. Provo sfregarla senza esprimere un desiderio. Voglio ricordare tutte le case in cui ho vissuto. Con tutta la gratitudine per gli spazi in cui ho abitato.